"Raglio d’asino non sale in cielo”,
“chi non sa leggere la sua scrittura è un asino di natura”, “lavare la testa
all’asino” ed il sardo “Ogadu acchaddu a s’ainu” (cacciato a cavallo all’asino) sono
alcuni detti popolari, diffusissimi su tutto lo stivale, che rivelano il discredito
che, nella tradizione comune, accompagna l’asino. Eppure niente è di più errato,
perché questo quadrupede, oltre ad essere fornito di una forza e di una
pazienza non comune, è dotato di una straordinaria intelligenza.
Il libro sacro
per eccellenza attesta che Maria e Giuseppe si dirigono a Betlemme a cavallo di
un asino; lo stesso animale è presente nella grotta assieme al bue nella
natività ed, infine, l’asino è la cavalcatura del trionfale ingresso di Gesù a
Gerusalemme. Eppure la casistica sugli asini continua a rivestire un’accezione
negativa. Nella scuola era prassi diffusa definire uno studente non proprio
modello “un asino”; negli anni cinquanta-sessanta si approntava un banco,
definito appunto dell’asino, dove far accomodare l’alunno meno brillante. La mia
generazione ricorda con terrore le orecchie d’asino confezionate con
straordinaria maestria dai maestri per incorniciare le tempie degli alunni
appunto “più somari”.
La mie esperienze su questi quadrupedi discordano
nettamente dalle credenze più popolari. Il primo asino che la mia memoria
ricordi era un’asina possente, forte e intelligente. Mio padre l’aveva
acquistata da un suo conoscente e amico, zio Giuseppe Piga, che ne aveva decantato
le doti e le aveva affibbiato un nome bizzarro: Marana. La curiosità, suscitata
da questo appellativo, era stata soddisfatta dalla lettura di un fumetto,
l’Intrepido, che accompagnò la mia preadolescenza. Le strisce a colori di
questo fumetto delineavano le storie degli eroi Bufalo Bill, Roland Eagle e dei
simpatici Arturo e Zoe. Le avventure che più entusiasmavano la mia immaginazione
erano quelle del “Principe del sogno”; un indomito principe indiano, che si
rifaceva nelle sembianze all’icona di Sandokan, si avvaleva, nella difesa di
deboli ed oppressi, dell’eccezionale concorso di una tigre addomesticata
denominata appunto Marana. Il nome era tutto un programma.
La compagna dei miei
primi esercizi acrobatici, appresi istintivamente per non cadere di sella,
possedeva il pelo grigio scuro, due orecchie enormi e gli occhi smisurati,
tristi e pensierosi. Sembrava si fosse appena asciugata le lacrime. Dimostrò,
immediatamente, un’indole nobile, mansueta, paziente e poco incline a far le
bizze. Trasportava senza fiatare i fardelli che le venivano caricati e non si
spazientiva nel compiere giornalmente i complessivi 16 chilometri del tragitto
Berchidda - “S’ena sa toa” e ritorno con il suo bel carico di lamas, contenitori di latte, da
consegnare alla cooperativa. Negli assolati pomeriggi estivi era capace di
stare sotto il sole senza soffrire le altissime temperature; quando doveva
dissetarsi procedeva utilizzando una metodica singolare: allontanava con il
muso il limo che si depositava nella parte superiore dell’acqua
dell’abbeveratoio e successivamente beveva filtrando tra gli enormi denti
serrati il prezioso liquido. Da piccoli si può essere cinici senza
accorgersene. Al termine di una dura giornata di lavoro, Marana avrebbe avuto
anche il sacrosanto diritto di approvvigionarsi di biada, di foraggio o dei
fiori di cardo di cui era ghiottissima. Noi non sentivamo ragioni: con mio
fratello e i miei cugini di Roma, che venivano a trovarci durante le vacanze,
avevamo inventato una sorta di corsa contro il tempo. Si doveva raggiungere, in
sella alla nostra prediletta, il cancello d’ingresso del tancato distante circa
150 metri e ritornare a gran velocità. A turno si controllavano i tempi per
decretare il vincitore, ma i tratti effettuati si concludevano nelle calde serate
estive solo al sopraggiungere delle tenebre. Finalmente a Marana, libera da
sella e finimenti, sudata e stremata per la fatica, veniva concesso di
ritagliarsi il tempo per rifocillarsi e dissetarsi; alle prime luci dell’alba
veniva presa in consegna da mio padre per le consuete attività giornaliere. Un
altro episodio che dimostra una spiccata forma di insensibilità nei confronti
della capostipite di una numerosa dinastia, fu la percorrenza a cavallo di
Marana del percorso S’Ena sa Toa Berchidda. Il piccolo particolare era
rappresentato dal fatto che in groppa al nobile destriero eravamo saliti in tre:
io e i miei due cugini più grandi. Essendo il più piccolo dei tre conducenti,
dovetti accomodarmi in prossimità della coda con evidenti prolungate
conseguenze per le mie natiche…
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