giovedì 16 luglio 2015

La principessa del sogno. Prima parte

"Raglio d’asino non sale in cielo”, “chi non sa leggere la sua scrittura è un asino di natura”, “lavare la testa all’asino” ed il sardo “Ogadu acchaddu a s’ainu” (cacciato a cavallo all’asino) sono alcuni detti popolari, diffusissimi su tutto lo stivale, che rivelano il discredito che, nella tradizione comune, accompagna l’asino. Eppure niente è di più errato, perché questo quadrupede, oltre ad essere fornito di una forza e di una pazienza non comune, è dotato di una straordinaria intelligenza.
Il libro sacro per eccellenza attesta che Maria e Giuseppe si dirigono a Betlemme a cavallo di un asino; lo stesso animale è presente nella grotta assieme al bue nella natività ed, infine, l’asino è la cavalcatura del trionfale ingresso di Gesù a Gerusalemme. Eppure la casistica sugli asini continua a rivestire un’accezione negativa. Nella scuola era prassi diffusa definire uno studente non proprio modello “un asino”; negli anni cinquanta-sessanta si approntava un banco, definito appunto dell’asino, dove far accomodare l’alunno meno brillante. La mia generazione ricorda con terrore le orecchie d’asino confezionate con straordinaria maestria dai maestri per incorniciare le tempie degli alunni appunto “più somari”.
La mie esperienze su questi quadrupedi discordano nettamente dalle credenze più popolari. Il primo asino che la mia memoria ricordi era un’asina possente, forte e intelligente. Mio padre l’aveva acquistata da un suo conoscente e amico, zio Giuseppe Piga, che ne aveva decantato le doti e le aveva affibbiato un nome bizzarro: Marana. La curiosità, suscitata da questo appellativo, era stata soddisfatta dalla lettura di un fumetto, l’Intrepido, che accompagnò la mia preadolescenza. Le strisce a colori di questo fumetto delineavano le storie degli eroi Bufalo Bill, Roland Eagle e dei simpatici Arturo e Zoe. Le avventure che più entusiasmavano la mia immaginazione erano quelle del “Principe del sogno”; un indomito principe indiano, che si rifaceva nelle sembianze all’icona di Sandokan, si avvaleva, nella difesa di deboli ed oppressi, dell’eccezionale concorso di una tigre addomesticata denominata appunto Marana. Il nome era tutto un programma.
La compagna dei miei primi esercizi acrobatici, appresi istintivamente per non cadere di sella, possedeva il pelo grigio scuro, due orecchie enormi e gli occhi smisurati, tristi e pensierosi. Sembrava si fosse appena asciugata le lacrime. Dimostrò, immediatamente, un’indole nobile, mansueta, paziente e poco incline a far le bizze. Trasportava senza fiatare i fardelli che le venivano caricati e non si spazientiva nel compiere giornalmente i complessivi 16 chilometri del tragitto Berchidda - “S’ena sa toa” e ritorno con il suo bel carico di lamas, contenitori di latte, da consegnare alla cooperativa. Negli assolati pomeriggi estivi era capace di stare sotto il sole senza soffrire le altissime temperature; quando doveva dissetarsi procedeva utilizzando una metodica singolare: allontanava con il muso il limo che si depositava nella parte superiore dell’acqua dell’abbeveratoio e successivamente beveva filtrando tra gli enormi denti serrati il prezioso liquido. Da piccoli si può essere cinici senza accorgersene. Al termine di una dura giornata di lavoro, Marana avrebbe avuto anche il sacrosanto diritto di approvvigionarsi di biada, di foraggio o dei fiori di cardo di cui era ghiottissima. Noi non sentivamo ragioni: con mio fratello e i miei cugini di Roma, che venivano a trovarci durante le vacanze, avevamo inventato una sorta di corsa contro il tempo. Si doveva raggiungere, in sella alla nostra prediletta, il cancello d’ingresso del tancato distante circa 150 metri e ritornare a gran velocità. A turno si controllavano i tempi per decretare il vincitore, ma i tratti effettuati si concludevano nelle calde serate estive solo al sopraggiungere delle tenebre. Finalmente a Marana, libera da sella e finimenti, sudata e stremata per la fatica, veniva concesso di ritagliarsi il tempo per rifocillarsi e dissetarsi; alle prime luci dell’alba veniva presa in consegna da mio padre per le consuete attività giornaliere. Un altro episodio che dimostra una spiccata forma di insensibilità nei confronti della capostipite di una numerosa dinastia, fu la percorrenza a cavallo di Marana del percorso S’Ena sa Toa Berchidda. Il piccolo particolare era rappresentato dal fatto che in groppa al nobile destriero eravamo saliti in tre: io e i miei due cugini più grandi. Essendo il più piccolo dei tre conducenti, dovetti accomodarmi in prossimità della coda con evidenti prolungate conseguenze per le mie natiche…


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