mercoledì 22 luglio 2015

Convitata di pietra

La convitata di pietra
Il convitato di pietra, espressione non solo italiana, si riferisce ad una presenza invisibile, silenziosa e perciò imprevedibile ed inquietante che tutti conoscono e nessuno nomina. Prende il nome dalla famosissima commedia tragica del francese Gian Battista Moliere. Il famoso drammaturgo si è ispirato ad un’antica leggenda che narrava la storia di un giovane dissoluto, che, imbattutosi lungo un sentiero nel cranio di un morto, lo prende a calci; successivamente lo invita, derisoriamente, a cena. Lo scheletro si materializza, effettivamente, davanti ai commensali atterriti, ma rifiuta di consumare il cibo e obbliga il giovane irriverente ad andare a trovarlo all’Aldilà. La morte del giovane scapestrato è la naturale conclusione di questo triste racconto. Fin dalla più tenera età ho convissuto con una presenza muta, silenziosa e inquietante: una tigre di pietra. Un megalite maestoso a forma di tigre; il felino, dal manto grigio con striature scure e verdi, dovute ad una sorta di sottile copertura di muschio, sdraiato con lo sguardo fisso, indefinito, rivolto verso la natura circostante, osservava e giudicava i miei primi passi nella vita. Situata a poco più di 30 metri dall’abitazione di campagna, ha rappresentato una sorta di parabola della mia esistenza. A cinque anni, sono riuscito a superare il primo ostacolo rappresentato dagli arti inferiori ritratti e mi sono assiso felice sul suo ventre. Due anni dopo, ho raggiunto il collo e ho spaziato con lo sguardo un orizzonte più ampio che mi consentiva di osservare le cime superiori degli alberi. Dovevo, però, riuscire ad issarmi sulla sua testa: era questo l’irrinunciabile obiettivo da raggiungere.  La meta, era resa più ardua da un particolare di non poco conto: soffrivo e soffro di vertigini. Finalmente, terminato il ciclo elementare, durante la pausa estiva, la famiglia si trasferisce come consuetudine in campagna. Dovevo vincere la mia sfida. Dopo qualche giorno, al termine dell’obbligatorio riposino pomeridiano, ho deciso di accarezzare il cielo con la punta delle dita. Pian piano, sfidando la legge di gravità, sono riuscito ad issarmi sulla groppa e, infine, ho raggiunto la superficie più alta del maestoso animale. Il mitico Achille Compagnoni, nel piantare la bandiera italiana nella vetta dell’immacolata montagna K2, non avrebbe saputo far di meglio! Le sensazioni provate potrebbero essere comparate a quelle sperimentate dal navigatore portoghese Vasco Da Gama nel doppiare il Capo di Buona Speranza. Alcuni anni dopo, esattamente il 20 luglio del 1969, all’età di 20 anni, mentre assistevo in diretta all’allunaggio di Neil Armstrong, mi commossi nell’udire la frase dell’illustre astronauta:” Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità”.  L’emozione del momento mi ripropose, quasi per incanto, quel meraviglioso turbamento provato nell’innalzarmi in groppa al felino e gridare a squarciagola la mia felicità. Il panorama che mi si parava davanti era splendido: le cime scolpite del Limbara a settentrione, l’altipiano verdeggiante di Buddusò e Alà dei Sardi a sud, i tetti rossicci delle abitazioni del vicino paese di Monti ad oriente, e, infine, le chiome solenni ed austere delle sonnolente ed attempate querce ad occidente. Inconsapevolmente, o forse coscientemente, la mia inseparabile amica mi aveva impartito un esemplare ammaestramento: nella vita i traguardi più significativi si conseguono solo con la pazienza, la costanza e la fatica. Il sacrificio dei miei continui, ripetuti, e talvolta infruttuosi, tentativi compiuti per osservare più da vicino la volta celeste, era stato premiato. Il superamento di un ostacolo aveva costituito un importante passo per la mia vita, ma rappresentava compiutamente la parabola dell’umanità che, grazie a innumerevoli azioni di coraggio e di sacrificio di tanti suoi anonimi e più noti rappresentanti, aveva compiuto balzi prodigiosi nel cammino del progresso e della civiltà.   

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