La convitata di pietra |
Il convitato di pietra,
espressione non solo italiana, si riferisce ad una presenza invisibile,
silenziosa e perciò imprevedibile ed inquietante che tutti conoscono e nessuno
nomina. Prende il nome dalla famosissima commedia tragica del francese Gian
Battista Moliere. Il famoso drammaturgo si è ispirato ad un’antica leggenda che
narrava la storia di un giovane dissoluto, che, imbattutosi lungo un sentiero
nel cranio di un morto, lo prende a calci; successivamente lo invita, derisoriamente,
a cena. Lo scheletro si materializza, effettivamente, davanti ai commensali
atterriti, ma rifiuta di consumare il cibo e obbliga il giovane irriverente ad
andare a trovarlo all’Aldilà. La morte del giovane scapestrato è la naturale
conclusione di questo triste racconto. Fin dalla più tenera età ho convissuto
con una presenza muta, silenziosa e inquietante: una tigre di pietra. Un
megalite maestoso a forma di tigre; il felino, dal manto grigio con striature
scure e verdi, dovute ad una sorta di sottile copertura di muschio, sdraiato
con lo sguardo fisso, indefinito, rivolto verso la natura circostante, osservava e giudicava i miei primi
passi nella vita. Situata a poco più di 30 metri dall’abitazione di campagna,
ha rappresentato una sorta di parabola della mia esistenza. A cinque anni, sono
riuscito a superare il primo ostacolo rappresentato dagli arti inferiori
ritratti e mi sono assiso felice sul suo ventre. Due anni dopo, ho raggiunto il
collo e ho spaziato con lo sguardo un orizzonte più ampio che mi consentiva di
osservare le cime superiori degli alberi. Dovevo, però, riuscire ad issarmi
sulla sua testa: era questo l’irrinunciabile obiettivo da raggiungere. La meta, era resa più ardua da un particolare
di non poco conto: soffrivo e soffro di vertigini. Finalmente, terminato il
ciclo elementare, durante la pausa estiva, la famiglia si trasferisce come
consuetudine in campagna. Dovevo vincere la mia sfida. Dopo qualche giorno, al
termine dell’obbligatorio riposino pomeridiano, ho deciso di accarezzare il
cielo con la punta delle dita. Pian piano, sfidando la legge di gravità, sono
riuscito ad issarmi sulla groppa e, infine, ho raggiunto la superficie più alta
del maestoso animale. Il mitico Achille Compagnoni, nel piantare la bandiera
italiana nella vetta dell’immacolata montagna K2, non avrebbe saputo far di
meglio! Le sensazioni provate potrebbero essere comparate a quelle sperimentate
dal navigatore portoghese Vasco Da Gama nel doppiare il Capo di Buona Speranza.
Alcuni anni dopo, esattamente il 20 luglio del 1969, all’età di 20 anni, mentre
assistevo in diretta all’allunaggio di Neil Armstrong, mi commossi nell’udire
la frase dell’illustre astronauta:” Questo è un piccolo passo per un uomo, ma
un grande balzo per l’umanità”. L’emozione del momento mi ripropose, quasi per
incanto, quel meraviglioso turbamento provato nell’innalzarmi in groppa al
felino e gridare a squarciagola la mia felicità. Il panorama che mi si parava
davanti era splendido: le cime scolpite del Limbara a settentrione, l’altipiano
verdeggiante di Buddusò e Alà dei Sardi a sud, i tetti rossicci delle
abitazioni del vicino paese di Monti ad oriente, e, infine, le chiome solenni ed
austere delle sonnolente ed attempate querce ad occidente. Inconsapevolmente, o forse
coscientemente, la mia inseparabile amica mi aveva impartito un esemplare
ammaestramento: nella vita i traguardi più significativi si conseguono solo con
la pazienza, la costanza e la fatica. Il sacrificio dei miei continui, ripetuti,
e talvolta infruttuosi, tentativi compiuti per osservare più da vicino la volta
celeste, era stato premiato. Il superamento di un ostacolo aveva costituito un
importante passo per la mia vita, ma rappresentava compiutamente la parabola
dell’umanità che, grazie a innumerevoli azioni di coraggio e di sacrificio di
tanti suoi anonimi e più noti rappresentanti, aveva compiuto balzi prodigiosi
nel cammino del progresso e della civiltà.
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