domenica 10 febbraio 2019

Ah perché non son io co’ miei pastori?


“Ah perché non son io co’ miei pastori?” con questo verso Gabriele D'Annunzio concludeva nostalgicamente e magistralmente la sua stupenda lirica “I pastori”. Ho amato sempre questi versi che richiamavano le mie radici. Ecco perché vivo intensamente la disperazione dei figli della nostra terra. Figlio di pastore sono stato avviato con mio fratello e mia sorella agli studi superiori prima e all'università poi. Allora si poteva. Mio padre, a differenza del “padre padrone” descritto da Gavino Ledda non volle che abbracciassi questo percorso di vita. “Troppo duro, pesante e faticoso” diceva. Per questo motivo non mi insegnò a mungere, a curare le pecore, a tosarle, a riconoscerne benessere o malessere fisico. Lo appresi successivamente con tanta forza di volontà. E non fu semplice come si potrebbe immaginare. Il mio genitore era infaticabile nella sua attività mutevole e complessa: scuoiare un agnello, sezionare le parti del maiale, preparare gli insaccati, spaccare e accatastare la legna in previsione dei rigori invernali. Un sacrificio individuale e solitario e per questo spesso sconfortante e deprimente. Occorrevano doti non comuni: tempra, coraggio, tenacia, carattere, resistenza. Nelle nostre realtà si economizzava, ma tutto sommato si viveva dignitosamente grazie ad alimenti genuini e incontaminati: il pane preparato in casa, i prodotti dell’orto, le carni, il latte e i suoi derivati. Generi di prima necessità che sapevano di purezza e di primitività. Che, comunque, non remuneravano adeguatamente le alzatacce dal tavolo i giorni di Natale, di Pasqua e delle feste comandate per gli obblighi imposti dalla presenza e dalle esigenze del bestiame: mungitura, foraggi, mangimi, attenzioni, vigilanza e controlli. Le uscite quotidiane alle prime luci dell’alba ed i rientri senza orari predefiniti. Alle preoccupazioni di mia madre per i suoi quotidiani ritardi corrispondevano imprevisti nuovi, emergenze insolite: assistenza al parto di una pecora, sistemazione di una recinzione precaria, transumanza protratta più del previsto. E che dire delle avversità che sconvolgevano la vita dei campi. Pecore sgozzate in più occasioni dai cani, agnelli razziati dalle volpi, annate amaramente siccitose, incendi improvvisi ed angoscianti, gelate tremende e devastanti. A tutto questo si aggiungeva l’impossibilità di fruire di un giorno di ferie durante l’anno. Rinunce e sacrifici affrontati con serenità e con dignità. Un sottile velo di malinconia lo attraversò quando consegnò il bestiame ad un giovane allevatore che lo acquistò consapevole della la bontà e della qualità del nostro gregge. Per inciso ricordo che il prezzo del latte ai primi del 1980 era pari a 1500 lire al litro (75 centesimi circa di euro). Sono trascorsi quasi quattro decenni. Un’eternità economica e sociale. Oggi ci si ribella alla miseria dei 60 centesimi per un litro di latte e si vorrebbe ottenere almeno un euro. E qualcuno ancora non capisce i motivi di tanto malcontento. Incomprensibile per una parte della pubblica opinione la battaglia di civiltà volta a difendere la propria dignità e la propria identità. Resistere per esistere e per sopravvivere. Senza se e senza ma. L’unica soddisfazione deriva dalla constatazione che mio padre è deceduto senza aver vissuto questa tremenda, tragica, drammatica vicenda. Ne avrebbe sofferto terribilmente. Forse non avrebbe superato questa devastante esperienza. Per questi motivi sono idealmente, affettivamente e dannunzianamente vicino ai pastori. “Ah perché non son io co’ miei pastori?”