lunedì 13 luglio 2015

Fascino di un falcetto

C’è un oggetto che conservo gelosamente in campagna e ogni tanto osservo con uno sguardo attento e rapito del tutto simile a quello del mitico Steve Jobs davanti al prototipo dell’i phone che avrebbe rivoluzionato usi e costumi di intere generazioni. E’ costituito da una lama affilata, ricurva, strettissima e da un manico corto, ormai logoro che conserva il fascino derivante dalla dignità di colui che questo strumento ha utilizzato negli anni: mio padre. Il manico presenta una sottile fenditura, all’interno della quale alloggia la parte terminale della lama, assicurata da un sottile filo di ferro che la avvolge e la tiene salda. Incrostazioni rugginose disseminate qua e là attestano l’abbandono di un’attività un tempo fonte di sostentamento per intere generazioni. Il falcetto ha, nella sua sobria essenzialità, l’incanto della funzionalità e dell’efficienza. I migliori artigiani del paese si cimentavano nella realizzazione di una foggia abbastanza simile per tutti i mietitori che doveva comunque rispondere ad un requisito fondamentale: la leggerezza. Provate a compiere movimenti meccanici ripetuti nell’arco di una giornata operando simultaneamente con una mano per raccogliere le spighe e con l’altra per tagliarle. Era raro che qualcuno si ferisse, ma succedeva. 
Mi è capitato in diversi momenti significativi della mia carriera di studio di sentire il peso, dopo aver riempito diverse pagine di protocollo, di una semplice penna a sfera; la fatica mentale, lo stress fisico, dopo diverse ore di stesura del testo, e l’attenzione finale indispensabile per evitare, in fase di ricopiatura, l’errore di ortografia potevano provocare forti emicranie. La mietitura a mano era un esercizio impegnativo, faticoso, difficile e stimolante che si perfezionava dopo anni di dura professione. Non si poteva improvvisare. Un campo mietuto con arte rappresentava quasi una firma del suo autore. Subentrava poi un problema non di poco: la destrezza che doveva essere accomunata alla velocità dei movimenti. Affrontare distese di 10-15 ettari in due tre persone non era uno scherzo e non poteva essere affidato ai novellini. Io non ho imparato a mietere con la necessaria professionalità, ho provato e sono stato retrocesso a raccoglitore di covoni; attività anch’essa molto faticosa anche perché praticata da studentello giovane e con i muscoli poco avvezzi alle pesanti fatiche della campagna. Il mio compito consisteva, pertanto, nell’accumulare i covoni in diversi punti strategici del terreno per essere poi convogliati in un unico sito pronti per la trebbiatura. Mio padre e quelli come lui affrontavano il compito indossando in testa un fazzoletto annodato ai quattro lati, tipo bandana, (della serie che il migliore non ha inventato niente di originale) che ogni tanto si bagnava nell’acqua per combattere l’arsura e l’inclemenza del tempo. Pantaloni, scarponi e camicia completavano l’abbigliamento che aveva una sua razionalità e praticità. La festa era rimandata al giorno della trebbiatura quando si confluiva con i carri a buoi in un luogo baricentrico in attesa della mietitrebbia. La vista dei sacchi colmi del prezioso prodotto premiava le fatiche di una stagione.  So, pertanto, che mietere non è semplice come molti presumono.
Queste considerazioni, si sono affastellate nella mia mente nel leggere una notizia straordinaria apparsa ieri sui principali quotidiani italiani e in diverse testate on line. Si è svolta a Milano, nell’ambito dell’Expo, in mezzo ai grattacieli di Porta Nuova la festa della mietitura. Tutti i cittadini che intendevano cimentarsi, muniti di stivali e di cappello, dovevano raggiungere l’area adibita alla tenzone che a febbraio era stata sottoposta all’azione di semina. I vecchi mietitori si rivolterebbero nella tomba. Innanzitutto la mietitura è un lavoro durissimo: per i miei antenati la sveglia suonava alle tre, tre e mezzo del mattino e relativo raggiungimento del tancato a piedi; con il tempo la camminata è stata parzialmente addolcita dalla trottata in groppa ad un asino, dalla cavalcata a cavallo e successivamente ad una mitica Guzzi o allo stornello e in qualche caso ad una vespa.
Negli anni sono apparse le prime vetture ad alleggerire lo sforzo fisico del percorso a piedi. Mi fanno sorridere i figli di papà che credono che sia sufficiente indossare un cappello e un paio di stivali di gomma (veniva considerato un suicidio utilizzarli d’estate sotto la canicola) per diventare mietitori; non basta prendere in mano una mazzetto di grano e, dopo un’abbondante colazione a base di pastine alla crema e cappuccino, recarsi verso le undici del mattino trionfanti all’Expo’ a dimostrare di essere diventati contadini. E’ il modo migliore per volgarizzare una mitica e gloriosa professione. 

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