C’è un oggetto che conservo
gelosamente in campagna e ogni tanto osservo con uno sguardo attento e rapito
del tutto simile a quello del mitico Steve Jobs davanti al prototipo dell’i
phone che avrebbe rivoluzionato usi e costumi di intere generazioni. E’ costituito
da una lama affilata, ricurva, strettissima e da un manico corto, ormai logoro
che conserva il fascino derivante dalla dignità di colui che questo strumento
ha utilizzato negli anni: mio padre. Il manico presenta una sottile fenditura,
all’interno della quale alloggia la parte terminale della lama, assicurata da
un sottile filo di ferro che la avvolge e la tiene salda. Incrostazioni
rugginose disseminate qua e là attestano l’abbandono di un’attività un tempo
fonte di sostentamento per intere generazioni. Il falcetto ha, nella sua sobria
essenzialità, l’incanto della funzionalità e dell’efficienza. I migliori artigiani
del paese si cimentavano nella realizzazione di una foggia abbastanza simile per
tutti i mietitori che doveva comunque rispondere ad un requisito fondamentale:
la leggerezza. Provate a compiere movimenti meccanici ripetuti nell’arco di una
giornata operando simultaneamente con una mano per raccogliere le spighe e con
l’altra per tagliarle. Era raro che qualcuno si ferisse, ma succedeva.
Mi è
capitato in diversi momenti significativi della mia carriera di studio di
sentire il peso, dopo aver riempito diverse pagine di protocollo, di una
semplice penna a sfera; la fatica mentale, lo stress fisico, dopo diverse ore
di stesura del testo, e l’attenzione finale indispensabile per evitare, in fase
di ricopiatura, l’errore di ortografia potevano provocare forti emicranie. La
mietitura a mano era un esercizio impegnativo, faticoso, difficile e stimolante
che si perfezionava dopo anni di dura professione. Non si poteva improvvisare.
Un campo mietuto con arte rappresentava quasi una firma del suo autore.
Subentrava poi un problema non di poco: la destrezza che doveva essere
accomunata alla velocità dei movimenti. Affrontare distese di 10-15 ettari in
due tre persone non era uno scherzo e non poteva essere affidato ai novellini. Io
non ho imparato a mietere con la necessaria professionalità, ho provato e sono
stato retrocesso a raccoglitore di covoni; attività anch’essa molto faticosa
anche perché praticata da studentello giovane e con i muscoli poco avvezzi alle
pesanti fatiche della campagna. Il mio compito consisteva, pertanto,
nell’accumulare i covoni in diversi punti strategici del terreno per essere poi
convogliati in un unico sito pronti per la trebbiatura. Mio padre e quelli come
lui affrontavano il compito indossando in testa un fazzoletto annodato ai
quattro lati, tipo bandana, (della serie che il migliore non ha inventato
niente di originale) che ogni tanto si bagnava nell’acqua per combattere
l’arsura e l’inclemenza del tempo. Pantaloni, scarponi e camicia completavano
l’abbigliamento che aveva una sua razionalità e praticità. La festa era
rimandata al giorno della trebbiatura quando si confluiva con i carri a buoi in
un luogo baricentrico in attesa della mietitrebbia. La vista dei sacchi colmi
del prezioso prodotto premiava le fatiche di una stagione. So, pertanto, che mietere non è semplice come
molti presumono.
Queste considerazioni, si sono affastellate nella mia mente
nel leggere una notizia straordinaria apparsa ieri sui principali quotidiani
italiani e in diverse testate on line. Si è svolta a Milano, nell’ambito
dell’Expo, in mezzo ai grattacieli di Porta Nuova la festa della mietitura. Tutti
i cittadini che intendevano cimentarsi, muniti di stivali e di cappello, dovevano
raggiungere l’area adibita alla tenzone che a febbraio era stata sottoposta
all’azione di semina. I vecchi mietitori si rivolterebbero nella tomba.
Innanzitutto la mietitura è un lavoro durissimo: per i miei antenati la sveglia
suonava alle tre, tre e mezzo del mattino e relativo raggiungimento del tancato
a piedi; con il tempo la camminata è stata parzialmente addolcita dalla trottata
in groppa ad un asino, dalla cavalcata a cavallo e successivamente ad una mitica
Guzzi o allo stornello e in qualche caso ad una vespa.
Negli anni sono apparse
le prime vetture ad alleggerire lo sforzo fisico del percorso a piedi. Mi fanno
sorridere i figli di papà che credono che sia sufficiente indossare un cappello
e un paio di stivali di gomma (veniva considerato un suicidio utilizzarli
d’estate sotto la canicola) per diventare mietitori; non basta prendere in mano
una mazzetto di grano e, dopo un’abbondante colazione a base di pastine alla
crema e cappuccino, recarsi verso le undici del mattino trionfanti all’Expo’ a
dimostrare di essere diventati contadini. E’ il modo migliore per volgarizzare
una mitica e gloriosa professione.
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