Domani ricorrono i settant’anni
dal tragico lancio sulla città di Nagasaki della bomba definita dagli americani
Fat Man (grassone) che di fatto chiuse barbaramente uno dei conflitti più funesti
per l’umanità. Paradossalmente iniziò una fase storica, definita dopoguerra,
che produsse a livello internazionale uno straordinario movimento di crescita,
di sviluppo e di progresso nei diversi campi della società. La generazione del
dopoguerra, nel mondo occidentale, è stata per molti versi fortunata. Ha
conosciuto la drammaticità dei conflitti solo attraverso i racconti dei
genitori o la visione dei reportage degli inviati dei giornali o delle
televisioni. Ha prodotto, con il sacrificio e con l’abnegazione, l’industrializzazione
delle proprie regioni conseguendo un’occupazione allargata a quasi tutti i
territori. Gli abitanti delle realtà, nelle quali questo processo ancora non
decollava, hanno deciso di trasferirsi in massa nelle aree più fortunate dando
vita ad un fenomeno di migrazione significativo. Il lavoro e l’occupazione
hanno favorito l’affrancamento di moltissimi dalla miseria e dalla povertà. L’obbligatorietà
della scuola e la diffusione del servizio scolastico anche nei paesini più
isolati del territorio nazionale ha facilitato la scolarizzazione di massa. L’istruzione
è diventata un ascensore sociale che ha consentito a tantissimi, provenienti da
famiglie non molto agiate, di laurearsi e di occupare incarichi di prestigio
nella società. E’ una generazione alla quale è stato insegnato a spegnere la
luce delle stanze dalle quali si esce e che la doccia quotidiana non costituisce
un’esigenza imprescindibile: il bagno, le docce non esistevano ancora, era
settimanale e costituiva un evento non sempre gradito quando si era piccoli; un
momento di necessità per i più grandicelli. Un utile e divertente diversivo era
costituito dall’immersione nei fiumi che circondavano il paese durante la
stagione più calda. E’ la generazione che ha ottenuto, attraverso la
contestazione e le lotte sociali, benefici e salvaguardia dei diritti per il
mondo del lavoro. Alcuni di questi si sono dimostrati nel tempo privilegi; mi
riferisco tra i tanti, alla possibilità di andare in pensione con 19 anni sei
mesi e un giorno di lavoro. La casistica, poi, dei benefit dei quali godono
talune categorie è lungo e indebito. Proprio per questo odioso e difficile da
estirpare. Meno fortunata la generazione dei nostri figli ai quali, sostiene
più di un sociologo, abbiamo tolto la speranza del futuro. Disoccupazione ai
massimi storici, incertezza sul proprio domani, ragazzi con un diploma di
laurea costretti a cercare lavoro in paesi sempre più lontani dal proprio.
Giovani che non possono programmare la propria vita affettiva perché manca il
requisito principe delle proprie certezze: il lavoro. Le risposte sono
molteplice e sarebbe compito improbo cercare di trovarle tutte. La realtà amara
è data dal fatto che molti giovani coppie si appoggiano ai genitori e sempre
più spesso si ancorano alle magre pensioni dei nonni. Queste figure note un
tempo per la loro saggezza e venerate all’interno di fecondi nuclei familiari,
oggi costituiscono l’ancora di sopravvivenza per troppi disperati. Le cronache riportano,
sempre più spesso, notizie di lavoratori di cinquant’anni con famiglia a carico
che, perso il lavoro e vanificata ogni prospettiva occupazionale futura, trovano
nei propri genitori un’ancora di sopravvivenza. E’ un ingiustizia sociale che
grida vendetta e che viene sublimata nel contestuale aumento esponenziale di
sacche di privilegiati che, senza grandi meriti, accolgono nella propria
persona incarichi e retribuzioni molteplici e sostanziose. Il differenziale
sociale tra chi possiede di più e chi vive in situazione di precarietà si è
accentuato in questi decenni. Occorrono politiche di riequilibrio
intergenerazionale, sono indispensabili provvedimenti legislativi di incentivi
per i nuovi occupati. Non è tollerabile continuare con questa situazione. Ed è
necessario fare in fretta. I disperati sociali non possono attendere a lungo.
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