Ventuno anni e qualche spicciolo
di mesi. Un diploma di laurea in lettere in tasca. Undici giorni di ansiosa
ed impaziente attesa. Quelli che intercorrono tra l’inizio delle lezioni, allora programmato
per il primo giorno di ottobre, e la sospirata telefonata di convocazione da
parte di una qualsiasi scuola. La disponibilità a trasferirmi in centri lontani
dal mio era incondizionata. Il dodici ottobre si materializzarono ben tre
chiamate provenienti da altrettanti istituti scolastici: le scuole medie di
Berchidda, di Chiaramonti e di Illorai avevano necessità di un docente di
lettere. Ventiquattro ore per accettare o rifiutare. Naturalmente accolsi la
proposta della scuola del mio paese. Con il cuore in gola, percorsi, accompagnato
dagli auguri benevoli dei miei, il breve tragitto che separava l'istituto dalla
mia abitazione. Ritrovavo la scuola nella quale avevo trascorso la felice
esperienza di studente. Gli ambienti scolastici erano rimasti immutati. Una
casa di civile abitazione riciclata come sede scolastica. All’ingresso fui
assalito da un acre odore di umidità proveniente dal seminterrato adibito a
palestra; trasmetteva tristezza e suscitava angoscia in un luogo deputato al piacere dell'insegnamento e alla
gioia dell’apprendimento. “Il preside l’attende” mi avverte il bidello Nicolino che stazionava all’ingresso della scuola. Salgo i gradini a due a due e mi reco in presidenza. Il preside,
una figura austera e solenne, mi ragguaglia sulla classe che avrei dovuto
guidare fino al termine delle lezioni: la seconda C. Ventiquattro alunni turbolenti
e scatenati si erano guadagnati, non senza ragione, la fama di classe più problematica
dell’istituto. Ignaro del clima che mi attendeva, in compagnia dell’immancabile
registro del professore, entrai nell’aula e, raggiunta furtivamente la
cattedra, procedetti con l’elenco dei presenti. Al termine, seguì qualche
minuto di silenzio dovuto alla curiosità rappresentata da un giovanissimo docente
che forse erroneamente occupava quel posto. La tregua si interruppe presto.
Sorrisini, battutine, spiritosaggini, domande inappropriate: sperimentarono le
più incredibili strategie di distrazione sulla pelle inesperta del malcapitato
docente digiuno di trattati di pedagogia e di tecniche di lusinghe o di
seduzione. Quindici giorni di continui mal di testa e la crescente convinzione
di essere inadatto all’insegnamento. I miei alunni, dei quali ricordo
eccezionalmente dati anagrafici e disposizione nei banchi, non sapevano, non
potevano sapere che era impossibile rinunciare alla passione della mia vita. Non avrei
potuto abbandonare una professione alla quale avevo dedicato una vita di studi.
Con il trascorrere dei giorni, i conflitti si attenuarono e la disciplina,
complice qualche tiratina non virtuale di orecchie, contagiò un po’ tutti. Piaget
sarebbe inorridito e la Montessori avrebbe criticato energicamente: eccessiva severità
e pratiche educative non sempre ortodosse contrassegnarono quell’esperienza. I
risultati, però, mi diedero ragione. Avevo
capito che occorreva tenerli costantemente impegnati proponendo contenuti
didattici in forme originali. L’anno trascorse senza grandi lacerazioni o
strappi tra di noi. L’anno successivo fui chiamato a prestare servizio militare
e conservai a lungo nel mio animo una struggente nostalgia. Non avrei mai potuto
dimenticare un gruppo di alunni vivaci, ma intelligenti, esuberanti, ma capaci
di slanci di affetto e di stima per chi si prodigava quotidianamente per il
loro futuro. Nel collegio dei docenti di fine anno una felice sorpresa ravvivò
un’esperienza che, partita sotto cattivi auspici, si era conclusa felicemente: Gesuino
Forteleoni, dirigente scolastico preparatissimo e severissimo con se stesso
prima che con gli altri, elogiò, alla presenza di tutti i colleghi, la mia condotta
e lodò il mio impegno. Quei complimenti inattesi mi fecero arrossire; maturai, però, la certezza che la mia iniziale percezione di inadeguatezza all’insegnamento
era infondata.
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