domenica 15 maggio 2016

La conquista della seconda C



Ventuno anni e qualche spicciolo di mesi. Un diploma di laurea in lettere in tasca. Undici giorni di ansiosa ed impaziente attesa. Quelli che intercorrono tra l’inizio delle lezioni, allora programmato per il primo giorno di ottobre, e la sospirata telefonata di convocazione da parte di una qualsiasi scuola. La disponibilità a trasferirmi in centri lontani dal mio era incondizionata. Il dodici ottobre si materializzarono ben tre chiamate provenienti da altrettanti istituti scolastici: le scuole medie di Berchidda, di Chiaramonti e di Illorai avevano necessità di un docente di lettere. Ventiquattro ore per accettare o rifiutare. Naturalmente accolsi la proposta della scuola del mio paese. Con il cuore in gola, percorsi, accompagnato dagli auguri benevoli dei miei, il breve tragitto che separava l'istituto dalla mia abitazione. Ritrovavo la scuola nella quale avevo trascorso la felice esperienza di studente. Gli ambienti scolastici erano rimasti immutati. Una casa di civile abitazione riciclata come sede scolastica. All’ingresso fui assalito da un acre odore di umidità proveniente dal seminterrato adibito a palestra; trasmetteva tristezza e suscitava angoscia in un luogo deputato al piacere dell'insegnamento e alla gioia dell’apprendimento. “Il preside l’attende” mi avverte il bidello Nicolino che stazionava all’ingresso della scuola. Salgo i gradini a due a due e mi reco in presidenza. Il preside, una figura austera e solenne, mi ragguaglia sulla classe che avrei dovuto guidare fino al termine delle lezioni: la seconda C. Ventiquattro alunni turbolenti e scatenati si erano guadagnati, non senza ragione, la fama di classe più problematica dell’istituto. Ignaro del clima che mi attendeva, in compagnia dell’immancabile registro del professore, entrai nell’aula e, raggiunta furtivamente la cattedra, procedetti con l’elenco dei presenti. Al termine, seguì qualche minuto di silenzio dovuto alla curiosità rappresentata da un giovanissimo docente che forse erroneamente occupava quel posto. La tregua si interruppe presto. Sorrisini, battutine, spiritosaggini, domande inappropriate: sperimentarono le più incredibili strategie di distrazione sulla pelle inesperta del malcapitato docente digiuno di trattati di pedagogia e di tecniche di lusinghe o di seduzione. Quindici giorni di continui mal di testa e la crescente convinzione di essere inadatto all’insegnamento. I miei alunni, dei quali ricordo eccezionalmente dati anagrafici e disposizione nei banchi, non sapevano, non potevano sapere che era impossibile rinunciare alla passione della mia vita. Non avrei potuto abbandonare una professione alla quale avevo dedicato una vita di studi. Con il trascorrere dei giorni, i conflitti si attenuarono e la disciplina, complice qualche tiratina non virtuale di orecchie, contagiò un po’ tutti. Piaget sarebbe inorridito e la Montessori avrebbe criticato energicamente: eccessiva severità e pratiche educative non sempre ortodosse contrassegnarono quell’esperienza. I risultati, però, mi diedero ragione.  Avevo capito che occorreva tenerli costantemente impegnati proponendo contenuti didattici in forme originali. L’anno trascorse senza grandi lacerazioni o strappi tra di noi. L’anno successivo fui chiamato a prestare servizio militare e conservai a lungo nel mio animo una struggente nostalgia. Non avrei mai potuto dimenticare un gruppo di alunni vivaci, ma intelligenti, esuberanti, ma capaci di slanci di affetto e di stima per chi si prodigava quotidianamente per il loro futuro. Nel collegio dei docenti di fine anno una felice sorpresa ravvivò un’esperienza che, partita sotto cattivi auspici, si era conclusa felicemente: Gesuino Forteleoni, dirigente scolastico preparatissimo e severissimo con se stesso prima che con gli altri, elogiò, alla presenza di tutti i colleghi, la mia condotta e lodò il mio impegno. Quei complimenti inattesi mi fecero arrossire; maturai, però, la certezza che la mia iniziale percezione di inadeguatezza all’insegnamento era infondata.

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