Nostalgia mista a malinconia.
Sensazioni che derivano dalla certezza che alcune professioni, che hanno
accompagnato la nostra giovinezza, sono scomparse incalzate dalla modernità. Un
breve servizio televisivo di cronaca regionale descriveva, qualche giorno fa, la progressiva
scomparsa dei calzolai. A La Maddalena, ad esempio, sopravvive un pensionato
ultrasettantenne che continua a risuolare scarpe per pura passione a causa dei
modesti introiti. Eppure questo mestiere ha conosciuto momenti di gloria.
Nella nostra comunità hanno convissuto negli anni cinquanta-sessanta decine di
calzolai che riuscivano a vivere dignitosamente. Mio padre, prima di dedicarsi all'attività agricola, era uno di questi.
Mi raccontava di aver appreso i primi rudimenti di questa nobile arte presso la
calzoleria di Cirore Casu. Collega di tirocinio il carissimo amico Giovanni
Casula che ha continuato a praticare a lungo questa attività. Lo spazio di
lavoro era angusto. Un tavolino accoglieva al proprio interno una serie di
scomparti dove riporre chiodi, semenze e attrezzistica varia: incudine
metallica a forma di piede ricurvo utilizzata per inchiodare le scarpe, tenaglie,
pietra levigatrice, trincetto, cucitrice, lesina, martello, colla, cavabullette,
calzatoio, raspa, setole, forme dei piedi, tiraforme (ferro ad uncino) e manale
(mezzo guanto) erano alcuni degli oggetti di uso quotidiano. L’unico
sopravvissuto tra questi è il martello che si distingue da tutti i suoi simili
per la battuta larga e arrotondata e l’estremità particolare a penna liscia per
ribattere le punte dei chiodi. Nonostante fossi molto piccolo quando mio padre smise
di esercitare, ricordo lucidamente il penetrante odore della pece utilizzata
per impeciare e per impermeabilizzare lo spago, in modo da renderlo più resistente
e aumentare la durata nelle cuciture a mano. La fase più delicata, una volta
prese le misure e impostata la forma era la cucitura incrociata:
venivano unite contemporaneamente e saldamente la suola terminale, il plantare
e la tomaia che diventavano un corpo unico. I singoli punti di cucitura
venivano stretti energicamente dalle sue mani vigorose protette dal manale per
evitare le incisioni derivate dallo spago penetrante. Questa protezione
scongiurava anche ferite dovute all’uso della lesina. L’attività era varia:
piccole riparazioni che interessavano stringhe rotte di sandali o di zainetti
di cuoio, risuolature di tacchi e di suole e, infine, realizzazione completa
degli scarponi chiodati (bottes bullittados). Spesse volte doveva inchiodare i salvatacchi a forma di mezze lune metalliche e le salvapunte di forma triangolare, che evitavano il rapido
consumo di tacchi e punte fondamentali parti della scarpa. Gli
scarponi chiodati erano i manufatti più impegnativi perché, visto il costo,
dovevano durare per anni. Sferragliavano sul selciato avvertendo i presenti del
sopraggiungere del possessore della meraviglia. Ricordo la soddisfazione di mio
padre al termine della sua opera: rimirava lo scarpone, lo accarezzava,
procedeva con maestria alle lucidature finali e lo poggiava delicatamente
accanto al compagno in attesa di osservare lo sguardo sorpreso del cliente alla
vista del capolavoro. Non tutti erano solleciti con i pagamenti e qualche volta
si barattava con altri prodotti o si concordavano pagamenti rateizzati. I tempi
erano difficili, ma le persone erano fondamentalmente oneste e corrette. Ricordo che la scarpa era importantissima e,
per salvaguardarla, molti bambini trascorrevano il periodo estivo camminando
scalzi. Spesso, quando la scarpa era stretta e non poteva essere trasmessa al
fratello più piccolo, si procedeva con il taglio della punta per un ulteriore
utilizzo! Tra i calzolai più longevi
ricordo Andrea Meloni, Giovannino Meloni, Barore Crasta, Paolo Manchinu, Emanuelle Sanna, Gigi Demuru, e, in seguito, i compianti Mario Demuru e Ignazio Demartis;
recentemente ha abbondonato l’attività Anselmo Pudda. Tra i giovanissimi Tore Mu svolge la propria attività a Sassari. Oggi non è rimasto
nessuno a coltivare questa nobile arte. Segno dei tempi che cambiano.
Già, segno dei tempi. Non andiamo più dal calzolaio a rifarci "sos pizos de sos taccos" :-) Avevamo il calzolaio di fiducia, faceva tutti gli scarponi da campagna per mio padre e miei fratelli, conosciuto da bambina, sempre lo stesso, un punto di riferimento.
RispondiEliminaUn saluto,
complimenti per il blog, la leggerò :-)
g
ps: Giovanna Arcadu :-)
EliminaMi lusinga e mi gratifica che abbia trovato motivi di riflessione in questa proiezione di un passato irripetibile, ma caro per chi lo ha vissuto con tanta serenità. Grazie e buona lettura
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