“Senza il nullaosta non puoi
frequentare”. Mi annunciarono. A cinque anni non sapevo leggere, né scrivere,
ma inconsciamente venni a contatto con un termine di cui ignoravo il
significato: nullaosta. Questa attestazione, che doveva essere rilasciata dalla
direzione didattica di Oschiri, era necessaria per consentirmi di anticipare di
un anno la frequenza della scuola elementare. Accorgimento scelto per fugare
l’eventualità che nell’anno successivo iniziassi la carriera scolastica sotto il
magistero di mia zia che insegnava nella scuola elementare. Si voleva
scongiurare un conflitto d’interessi a carattere familiare. Giocava a favore
dell’accoglimento della richiesta la contemporanea frequenza della prima classe
del mio fratello maggiore. Grembiule, fiocchetto e cartella rimasero
malinconicamente riposti in un angolo della mia cameretta in attesa della
sospirata autorizzazione. I primi cinque giorni di ottobre del 1954 trascorsero
nell’attesa di un positivo riscontro: aspettavo ansiosamente il rientro a casa
di mio fratello e gli chiedevo come procedevano le attività. L’agitazione si
acutizzava con il trascorrere del tempo. Mi sembrava di morire. Come avrei
potuto colmare il divario dovuto alla perdita di tutti quei giorni di lezione?
Finalmente si materializzò il fatidico nullaosta: mi fu comunicato il sesto
giorno di ottobre. Indossai inquieto la divisa consistente a quei tempi in un
grembiulino nero corredato da un colletto bianco e da uno spropositato fiocco
rosso. Esaminai con cura, in un secondo
momento, lo scarno materiale didattico riposto nella cartella di cartapesta: una
matita, una penna con il pennino amovibile da intingere nel calamaio, un
quaderno a quadretti, uno a righe, una gomma e un foglio di carta assorbente. A
metà mattinata mi recai a scuola accompagnato da mia madre. Memorizzai il
percorso per conquistare la piena autonomia. Nessuno ragazzo si sognava di
farsi accompagnare se non per eccezionali motivi di carattere disciplinare o
sanitario. Non so per quale ragione non avessi frequentato la scuola
dell’infanzia e, pertanto, ero completamente ignaro del clima scolastico. Lo
shock fu tremendo. Ricordo il terrore che provai nel momento in cui si aprì la
porta della classe: 27 alunni (le classi miste erano bandite) mi guardarono
sorpresi. Una straordinaria umanità che non era accomunata neppure dall’anno di
nascita: figuravano ripetenti di uno, due e tre anni. Questi ultimi apparivano
veri e propri colossi nell’immaginazione dell’unico bambino anticipatario. Il
secondo momento di panico fu dovuto alla scoperta dell’attività che svolgevano.
La maestra, signorina Luisina, aveva tracciato alla lavagna delle aste oblique da
sinistra verso destra e i miei colleghi di apprendimento le riproducevano non
senza fatica sui propri quaderni. Sarei riuscito a fare altrettanto? Fui
accompagnato al banco accanto a mio fratello: fu l’unico momento di conforto in
una mattinata difficile e tormentata. L’approccio al mondo della conoscenza non
poteva essere più drammatico. L’orgoglio, la volontà e la passione avrebbero
avuto la meglio sulla complessità e sulla problematicità del mondo del sapere?
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