mercoledì 27 luglio 2016

Un altro ospedale e un altro pezzo di vita









Ho sempre pensato che un breve soggiorno in ospedale sia salutare sotto tanti punti di vista. In primo luogo perché si recupera, o si dovrebbe, la salute perduta. In secondo luogo perché le diverse testimonianze di mali che affliggono volti conosciuti e sconosciuti ti portano a riconsiderare e a rivalutare la fortunata congiuntura di averli evitati. Quando stai male desideri ardentemente recarti presso questo centro di assistenza perché anche la morte in questa sede ha i lineamenti della dolcezza. Infine il centro di cura costituisce un luogo aggregante all’interno del quale scopri un universo sconosciuto costituito di efficienza e talvolta di inefficienza, di preparazione e di sufficienza, di sensibilità e di disattenzione. A pensarci bene ho maturato in questo campo un’esperienza vasta e ramificata: nel tempo ho avuto modo di soggiornare o di accompagnare congiunti in diversi centri di cura in Italia e all’estero: Ozieri, Sassari, Olbia, Nuoro, Cagliari, Udine, Reggio Emilia, Roma, Ginevra costituiscono le città nelle strutture delle quali ho avuto modo di sperimentare differenti tipologie di prestazioni e di servizi ospedalieri.  Sono stato di recente ricoverato presso l’ospedale di Ozieri per un intervento chirurgico. L’operazione prevista inizialmente per fine maggio è slittata a metà luglio per la riduzione dell’operatività delle sale operatorie. Gli interventi vengono effettuati in attesa di ripristino delle sedi solo nella sala di ortopedia. Il reparto di chirurgia è stato allocato nel piano un tempo occupato da ostetricia. Non si capisce perché un reparto che costituiva un fiore all’occhiello della struttura sia stato progressivamente smobilitato. Il letto che mi è stato assegnato era quello occupato da mia moglie alla nascita del mio primo figlio. La struttura del letto è oggi dotata di un telecomando che consente il sollevamento automatico della rete. Potenza del progresso! Pavimenti logorati dall’incedere lento e malfermo di migliaia di degenti negli anni. Intonaci che mostrano qua e là le insidie del tempo. Il personale è gentile e cordiale. I pasti frugali, ma nella norma. Varietà di primi e di secondi che si assottiglia con l’erogazione ai degenti. Primo giorno dedicato ai controlli con grande disponibilità di tempo per conoscere e socializzare con Massimo e con Roberto giovani compagni di stanza. Un paziente della stanza vicina soffre e si lamenta con altissimi e lancinanti urli che si ripetono nella monotonia del tempo che trascorre. “Signor Giacinto cosa c’è che non va”? domandano accorate le infermiere. “Non ce faccio” prorompe, ma la loro presenza e il successivo intervento producono l’effetto di un momentaneo sollievo per lui e per i nostri timpani. Vengo a sapere che un caro conoscente con il quale mi ero soffermato a discutere un mese prima è in fin di vita. Pudicamente mi aveva nascosto la gravità del male che lo consumava. Qualche stanza più avanti è prossimo alla fine un signore conosciuto durante i miei studi ad Ozieri. Mi avvicino alla stanza per un breve saluto, ma mi ritraggo. E’ circondato dai suoi; la stanza semichiusa con le tapparelle abbassate per il riserbo dovuto alle sue condizioni.  Le sue sofferenze e soprattutto il disfacimento del suo fisico mi inducono ad allontanarmi rattristato: questo tipo di angoscia e questa forma di dolore escludono le testimonianze d’affetto. Il mattino seguente vengo accompagnato alla sala operatoria. Ci vado a piedi accompagnato da due infermiere. “E’ la prima volta che vedo un paziente recarsi a piedi in sala operatoria” commenta la prima che trasporta sulla lettiga una signora che dovrà essere operata dopo di me e mi sorride pensierosa e preoccupata. Ci ritroveremo qualche settimana dopo alle medicazioni e il suo volto è radioso e felice. Mi fanno indossare il camice di prammatica ed eccomi in sala operatoria. “Le praticheremo l’anestesia spinale e, pertanto, dovrà inarcare la schiena; sentirà un leggero bruciore”. Eseguo meccanicamente, mentre avverto un progressivo stato di pesantezza e di abbandono della sensibilità delle gambe. L’anestesista ogni tanto mi ragguaglia sull’evolversi della situazione. Al termine, trascorsa poco più di un’ora, vengo riaccompagnato in reparto e avvolto dall’amore dei miei cari. Le visite di alcuni compaesani che hanno saputo dell’intervento mi rallegrano: l’ospedale è un paese nel quale si sa tutto di tutti. L’indomani mi annunciano le dimissioni, ma non riesco ad alzarmi autonomamente dal letto. Ci riuscirò con l’aiuto di mia moglie e di mio figlio. “Mi raccomando niente sforzi” consiglia sorridente il dottor Mundula al momento dei saluti. E’ andato tutto bene e sono felice. Guardo fuori dai vetri delle finestre e riconosco il volo sincopato delle rondini. Sono le stesse che avevo notato al mio arrivo ad Ozieri, all’inizio dei miei studi superiori, e sembrano ridisegnare inattese e singolari percezioni di fiducia sul futuro: mi lascio alle spalle un altro ospedale e un altro pezzo di vita.

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