Ho sempre pensato che un breve
soggiorno in ospedale sia salutare sotto tanti punti di vista. In primo luogo
perché si recupera, o si dovrebbe, la salute perduta. In secondo luogo perché
le diverse testimonianze di mali che affliggono volti conosciuti e sconosciuti
ti portano a riconsiderare e a rivalutare la fortunata congiuntura di averli
evitati. Quando stai male desideri ardentemente recarti presso questo centro di
assistenza perché anche la morte in questa sede ha i lineamenti della dolcezza.
Infine il centro di cura costituisce un luogo aggregante all’interno del quale
scopri un universo sconosciuto costituito di efficienza e talvolta di
inefficienza, di preparazione e di sufficienza, di sensibilità e di
disattenzione. A pensarci bene ho maturato in questo campo un’esperienza vasta
e ramificata: nel tempo ho avuto modo di soggiornare o di accompagnare
congiunti in diversi centri di cura in Italia e all’estero: Ozieri, Sassari,
Olbia, Nuoro, Cagliari, Udine, Reggio Emilia, Roma, Ginevra costituiscono le città nelle strutture delle quali ho avuto modo di sperimentare differenti tipologie di
prestazioni e di servizi ospedalieri.
Sono stato di recente ricoverato presso l’ospedale di Ozieri per un
intervento chirurgico. L’operazione prevista inizialmente per fine maggio è
slittata a metà luglio per la riduzione dell’operatività delle sale operatorie.
Gli interventi vengono effettuati in attesa di ripristino delle sedi solo nella
sala di ortopedia. Il reparto di chirurgia è stato allocato nel piano un tempo
occupato da ostetricia. Non si capisce perché un reparto che costituiva un
fiore all’occhiello della struttura sia stato progressivamente smobilitato. Il
letto che mi è stato assegnato era quello occupato da mia moglie alla nascita
del mio primo figlio. La struttura del letto è oggi dotata di un telecomando
che consente il sollevamento automatico della rete. Potenza del progresso!
Pavimenti logorati dall’incedere lento e malfermo di migliaia di degenti negli
anni. Intonaci che mostrano qua e là le insidie del tempo. Il personale è
gentile e cordiale. I pasti frugali, ma nella norma. Varietà di primi e di
secondi che si assottiglia con l’erogazione ai degenti. Primo giorno dedicato
ai controlli con grande disponibilità di tempo per conoscere e socializzare con
Massimo e con Roberto giovani compagni di stanza. Un paziente della stanza
vicina soffre e si lamenta con altissimi e lancinanti urli che si ripetono
nella monotonia del tempo che trascorre. “Signor Giacinto cosa c’è che non va”?
domandano accorate le infermiere. “Non ce faccio” prorompe, ma la loro presenza
e il successivo intervento producono l’effetto di un momentaneo sollievo per
lui e per i nostri timpani. Vengo a sapere che un caro conoscente con il quale mi
ero soffermato a discutere un mese prima è in fin di vita. Pudicamente mi aveva
nascosto la gravità del male che lo consumava. Qualche stanza più avanti è
prossimo alla fine un signore conosciuto durante i miei studi ad Ozieri. Mi
avvicino alla stanza per un breve saluto, ma mi ritraggo. E’ circondato dai
suoi; la stanza semichiusa con le tapparelle abbassate per il riserbo dovuto
alle sue condizioni. Le sue sofferenze e
soprattutto il disfacimento del suo fisico mi inducono ad allontanarmi
rattristato: questo tipo di angoscia e questa forma di dolore escludono le
testimonianze d’affetto. Il mattino seguente vengo accompagnato alla sala
operatoria. Ci vado a piedi accompagnato da due infermiere. “E’ la prima volta
che vedo un paziente recarsi a piedi in sala operatoria” commenta la prima che
trasporta sulla lettiga una signora che dovrà essere operata dopo di me e mi
sorride pensierosa e preoccupata. Ci ritroveremo qualche settimana dopo alle
medicazioni e il suo volto è radioso e felice. Mi fanno indossare il camice di
prammatica ed eccomi in sala operatoria. “Le praticheremo l’anestesia spinale e,
pertanto, dovrà inarcare la schiena; sentirà un leggero bruciore”. Eseguo
meccanicamente, mentre avverto un progressivo stato di pesantezza e di
abbandono della sensibilità delle gambe. L’anestesista ogni tanto mi ragguaglia
sull’evolversi della situazione. Al termine, trascorsa poco più di un’ora,
vengo riaccompagnato in reparto e avvolto dall’amore dei miei cari. Le visite
di alcuni compaesani che hanno saputo dell’intervento mi rallegrano: l’ospedale
è un paese nel quale si sa tutto di tutti. L’indomani mi annunciano le
dimissioni, ma non riesco ad alzarmi autonomamente dal letto. Ci riuscirò con
l’aiuto di mia moglie e di mio figlio. “Mi raccomando niente sforzi” consiglia
sorridente il dottor Mundula al momento dei saluti. E’ andato tutto bene e sono
felice. Guardo fuori dai vetri delle finestre e riconosco il volo sincopato
delle rondini. Sono le stesse che avevo notato al mio arrivo ad Ozieri, all’inizio
dei miei studi superiori, e sembrano ridisegnare inattese e singolari percezioni
di fiducia sul futuro: mi lascio alle spalle un altro ospedale e un altro pezzo
di vita.
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