Gli insegnamenti dei classici
sono illuminanti. La lettura dei testi aiuta a comprendere tante cose: prima di
tutto noi stessi. Ho ripreso in questi giorni la lettura delle Bucoliche di
Virgilio. La passione, la conoscenza e la sua consapevolezza dei temi pastorali e
bucolici non hanno pari. La sua grandezza, d’altro canto, è attestata dal più
grande uomo di cultura che la nostra letteratura annoveri. Il sommo poeta Dante
Alighieri, nel riconsiderare le variegate sfaccettature dell’animo umano, volle
essere accompagnato nelle prime due cantiche della Divina Commedia proprio da
Virgilio considerato, non a torto, l’uomo più sapiente dell’antichità. La
maestria, la raffinatezza stilistica e contenutistica del testo latino delineano
magistralmente la vita dei campi intesa come valore culturale e aggiungerei vitale.
Da qualche tempo a questa parte
molti riscoprono la bellezza e la salubrità della vita trascorsa a contatto con
la natura. Eppure da piccolo soffrivo tutte le volte che si profilava la
possibilità di un trasferimento della famiglia in campagna. All’indomani della
pubblicazione degli esiti scolastici, la famiglia traslocava armi e bagagli
nella casetta in campagna. Questo cambiamento di vita era in qualche modo obbligato.
Mio padre, in questo modo, evitava un viaggio quotidiano per accudire alle
incombenze rurali. Eppure vivere lontano dagli amici costituiva una sofferenza
per me, per mio fratello e per mia sorella. Si rientrava in paese raramente;
questo fatto costituiva motivo di malumore per preadolescenti che definivano
faticosamente la propria personalità. Eravamo autosufficienti sotto il profilo
alimentare: pane cotto nel forno a legna, fagioli, pomodori, verdure ed
ortaggi, patate, angurie e meloni, uova, latte e carni varie non necessitavano
di particolari certificazioni che ne attestassero la genuinità. Saggezza,
maestria ed accortezza costituivano premesse imprescindibili per il loro
consumo. Eppure solo oggi riconosco la bellezza di quei tempi. La sveglia era
affidata al cinguettio degli uccelli o al canto del gallo. Il tintinnio delle
campanelle legate al collo delle pecore, impegnate fin dalle prime luci
dell’alba nella ricerca degli ultimi scampoli di erba, reiterava la
sollecitazione al risveglio. Il latrato dei cani e il miagolio dei gatti
precedevano il frinio delle cicale che rimbalzava da un albero all’altro con
ossessiva ripetitività. Le nostre mansioni erano limitate a impegni saltuari e
circoscritti. Dovevamo attingere l’acqua dalla sorgente distante dalla casa 150
metri, riempire i recipienti capienti 10-15 litri e versare il prezioso
contenuto in un apposito contenitore che costituiva la riserva idrica per tutte
le incombenze domestiche. Aiutavamo i nostri genitori a zappettare le erbacce
che crescevano nell’orto oppure eravamo impegnati a raccogliere i prodotti
dell’orto. L’illuminazione dell’abitazione, in mancanza di energia elettrica,
era assicurata dalle candele di cera. Sconosciuti telefonini, televisori,
internet: vita improponibile ed impossibile oggi a giovani e giovanissimi. Quel
tipo di vita ti temprava all’essenzialità e alla sobrietà. Niente andava
sprecato. Ricordo la gioia provata nel raccogliere le uova nel pollaio, nel
gustare il pane appena sfornato o nell’assaporare un piatto di patate e di fagioli
appena raccolti. La delizia derivata dalla degustazione delle seadas, la cui
misura coincideva con le dimensioni dei piatti, ha rappresentato uno stato di
appagamento gustativo mai più provato. Oggi riscopro la bellezza della vita in
campagna. Ho virgilianamente idealizzato quel “mondo perduto” che, come il
grande cantore della grandezza di Roma, riconosco ideale ed idilliaco.
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